Che cosa signifca tollerare e che cosa tollerare

04.09.2013 15:06

 

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Che cosa significa tollerare oggi

 

Il termine "tollerare", come diversi termini ad oggi, ha subito anch'esso una deviazione nel suo significato etimologico. Sembra quasi che tollerare sia diventato oggi un diritto, una legge attraverso la quale far passare piuttosto tutte le aberrazioni che, tollerate e tollerabili, non hanno affatto alcun diritto nell'imporsi.

Tollerare deriva da una radice indo-germanica: tal= portare, sollevare, pesare.... da thul-ian e dall' anglo-sassone tholian = sopportare; thul-ains= tolleranza; infine tàlanton= portare, peso, bilancia. Con l'affermarsi del termine si venne ad indicare così, dal latino "tolerare", il portare un peso, il su-portare (=sopportare).

Tollerare, quindi, significa sopportare e non certo "accettare", specialmente passivamente o persino attivamente, ogni forma di peccato. Nulla da spartire con alcun sincretismo etico, morale o religioso che fosse o si pretendesse.

Possiamo fare l'esempio della prostituzione che, essendo antica quanto il mondo e l'uomo stesso, è tollerabile dal momento che nessuno può imporre con la forza la corretta morale e tuttavia lo Stato stesso ha il dovere di educare la società ricordando, appunto, come la prostituzione non sia affatto una bella situazione per la donna che la vive e come dietro a questo mercato del corpo si nutre piuttosto la malavita organizzata, lo sfruttamento, la tratta dei nuovi schiavi e di una moderna schiavitù, per non parlare del riciclaggio del danaro proveniente dalla droga e da altri mercati immorali e dalla vendita stessa del proprio corpo. Se dunque della prostituzione è tollerare la persona che si prostituisce (cercando sempre di ricondurla sulla retta via), deve diventare intollerante lo Stato quando dietro a questo mercato s'impinguano i papponi e quant'altro. E per questo infatti ci sono le leggi che tentano di impedire il proliferare della prostituzione cercando di mantenerla a livelli, appunto detti, tollerabili.

Così un buon cristiano non può tollerare, mai, qualsiasi atto peccaminoso sotto la falsa mantella del "male minore", in questo senso parla tutto il Vangelo durante la descrizione della vita pubblica di Gesù e dei suoi Discepoli: nessun compromesso con il peccato, tolleranza zero.

Ma questa intolleranza non è mai rivolta contro le persone, quanto piuttosto contro gli atti immorali che sono ben delineati dai Dieci Comandamenti. Quindi la prima vera forma di intolleranza è verso se stessi. Nessuno che voglia dirsi discepolo del Cristo può agevolare ciò che nei suoi Comandamenti è condannato.

Ama il prossimo tuo come ami te stesso.

Quanto è stata strumentalizzata questa espressione!

Non è possibile amare correttamente il prossimo se tolleriamo in noi stessi il peccato. Per questo il vero Cristiano non è mai un moralista ma bensì un testimone. Vive, cioè, e testimonia con il proprio comportamento ciò che insegna la legge divina la quale non è un monopolio della Chiesa Cattolica o di una religione, piuttosto appartiene all'uomo stesso, ad ogni uomo di qualsiasi razza, cultura, lingua, nazione o continente e che nel Cristo trova il compimento, lo stile di vita che è "segno di contraddizione" nel mondo il quale, come ben sappiamo, gestito dal principe dei Demoni, marcia contro Dio.

Se le cose oggi vanno male la responsabilità primaria è di quanti, dicendosi "cattolici" vivono da peccatori contenti del proprio stato, oppure tolleranti verso il peccato pensando di fare un atto gradito a Dio e al prossimo dimenticando il monito ben descritto in Ezechiele:

- "Figlio d'uomo, io t'ho stabilito come sentinella (..) Se io dico all'empio: "Certamente morirai" e tu non l'avverti e non parli per avvertire l'empio di abbandonare la sua via malvagia perché salvi la sua vita, quell'empio morirà nella sua iniquità, ma del suo sangue domanderò conto a te. Ma se tu avverti l'empio, ed egli non si ritrae dalla sua empietà e dalla sua via malvagità, egli morirà nella sua iniquità, ma tu avrai salvato la tua anima. Se poi un giusto si ritrae dalla sua giustizia e commette iniquità, io gli metterò davanti un ostacolo ed egli morirà; poiché tu non l'hai avvertito egli morirà nel suo peccato, e le cose giuste da lui fatte non saranno più ricordate, ma del suo sangue domanderò conto alla tua mano. Se però tu avverti il giusto perché non pecchi e non pecca, egli certamente vivrà perché è stato avvertito, e tu avrai salvato la tua anima" (3,17).

Il Vangelo ci invita a “porgere l’altra guancia” è vero, accettando le ingiustizie fatte contro di noi quando tali ingiustizie coinvolgono unicamente la nostra persona, ma non invita mai a tollerare l'atto del peccare, anzi, è intollerante verso ogni forma di peccato. Non si porge mai l'altra guancia al peccato, semmai la si porge a quel peccatore che, incallito, recidivo e magari anche violento, ci colpisce perché condanniamo ciò che è peccato o perché divulghiamo e viviamo la Buona Novella. Diversamente, il Vangelo stesso, non avrebbe avuto ragione di spiegarci l'umiltà del porgere l'altra guancia, dell'essere perseguitati perché percorriamo la via stretta indicata e battuta dal Cristo stesso.

 

Siamo tutti peccatori! E tutti abbiamo bisogno di essere tollerati da Dio a causa dei nostri difetti duri a morire. Dio ci tollera quando cerchiamo di correggerci, ma non ci tollera più quando con superbia pretendiamo di rimanere tranquilli e beati nel peccato.

La differenza sostanziale tra noi peccatori è che nel nostro caso, se siamo veramente di Cristo, ci riconosciamo bisognosi della salvezza, dei Sacramenti, bisognosi di vivere da veri cristiani; nel secondo caso non vogliamo essere salvati, non ci interessa, preferiamo il mondo; e c'è anche un terzo caso in cui - noi peccatori - pretenderemo una salvezza pur continuando a rimanere peccatori, trattasi del famoso "bonismo" finendo per diventare poi anche moralisti, e sono quelli che difendono ad oltranza appunto la tolleranza verso ogni forma di peccato, magari convinti (in buona o fede o meno) che tollerando ogni cosa si finirà per essere perdonati senza aver fatto nulla contro il dilagare del peccato. Ma questo è ingannare se stessi prima e il prossimo come conseguenza.

 

" Vae, qui dicunt malum bonum et bonum malum, ponentes tenebras in lucem et lucem in tenebras, ponentes amarum in dulce et dulce in amarum!

Guai a coloro che chiamano bene il male e male il bene, che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre, che cambiano l'amaro in dolce e il dolce in amaro" (Isaia 5, 20).

La tolleranza, se ben praticata, mette in luce proprio queste differenze, mette in risalto la differenza fra il bene, che siamo chiamati a praticare e ad accogliere, e ciò che è male e che viene tollerato affinché possa essere corretto.

La tolleranza è proprio una forma di virtù evangelica della quale è Cristo stesso che ci ha dato l'esempio tollerando noi, l'umanità da salvare. Cristo Gesù è stato il vero esempio di autentica tolleranza e che, come rammenta San Paolo, ha condiviso tutto con noi e per noi, fuorché il peccato.

La tolleranza del Cristo è stata quella di farsi "trattare" da peccato affinché noi potevamo esserne liberati, ma proprio per non accettare il peccato Cristo finì sulla Croce. Essere davvero pacifici e tolleranti significa entrare per la porta stretta.

Quando rivediamo la scena del Pretorio fra Gesù e Barabba; fra la Verità e la menzogna, alla domanda di Pilato "chi volete che vi liberi?" noi facevamo una scelta drammatica, sceglievamo di liberare la menzogna e gridavamo che la Verità venisse crocefissa.

Qui la tolleranza di Dio toccò il culmine perché ci lasciò fare rispettando la nostra scelta, per questo Gesù dalla Croce potrà supplicare per noi: "Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno".

Muore Gesù non solo perché così doveva essere, ma perché così avremmo dovuto agire anche noi. Gesù ci ha dato l'esempio: la vera tolleranza è quella di finire crocifissi non per difendere ma per divulgare la Verità Risorta e vincitrice, per portare quella luce vittoriosa che altri vogliono continuare ad oscurare, così come esiste una forma di tolleranza che, per il Signore Gesù e per ogni credente, è come il tradimento. È ad esempio mantenere il silenzio quando il nome di Dio è bestemmiato e quando Gesù Cristo è disonorato, o quando si preferisce tacere la condanna del peccato: «Se questi taceranno, urleranno le pietre» (Lc. 19, 40).

Oggi, nel mondo contemporaneo, si è rafforzata una tolleranza attiva che spinge verso una convivenza democratica, in cui le regole sono ammesse ed estese anche all’altro, a volte anche imposte, per sfrondare il fatto che l’altro non è "un qualcuno da sopportare" ma un soggetto portatore di altri valori con cui interagire.

Benché ci sia del condivisibile in questo, e cioè che l'altro non deve essere "uno da sopportare" ma da accogliere e amare, deve essere anche ben chiaro che non si può pretendere la tolleranza laddove per "l'altro" si finisce per intendere l'adempimento dell'errore, il suo portare valori immorali ed inaccettabili quali le questioni etiche e morali o ciò che riconosciamo quali  principi indiscutibili come il diritto alla vita fin dal suo concepimento, la famiglia formata da un uomo e una donna, il diritto dell'uso dei termini "padre e madre", e quant'altro abbia attinenza con la verità sull'uomo.

 

Così scriveva il Venerabile Pio XII ai Giuristi Cattolici:

 

"... Può Dio, sebbene sarebbe a Lui possibile e facile di reprimere l'errore e la deviazione morale, in alcuni casi scegliere il « non impedire », senza venire in contraddizione con la Sua infinita perfezione?

Può darsi che in determinate circostanze Egli non dia agli uomini nessun mandato, non imponga nessun dovere, non dia perfino nessun diritto d'impedire e di reprimere ciò che è erroneo e falso?

Uno sguardo alla realtà dà una risposta affermativa.

Essa mostra che l'errore e il peccato si trovano nel mondo in ampia misura.

Iddio li riprova; eppure li lascia esistere.

Quindi l'affermazione : Il traviamento religioso e morale deve essere sempre impedito, quando è possibile, perché la sua tolleranza è in sé stessa immorale — non può valere nella sua incondizionata assolutezza.

D'altra parte, Dio non ha dato nemmeno all'autorità umana un siffatto precetto assoluto e universale, nè nel campo della fede nè in quello della morale.

Non conoscono un tale precetto nè la comune convinzione degli uomini, nè la coscienza cristiana, nè le fonti della rivelazione, nè la prassi della Chiesa. Per omettere qui altri testi della Sacra Scrittura che si riferiscono a questo argomento, Cristo nella parabola della zizzania diede il seguente ammonimento : Lasciate che nel campo del mondo la zizzania cresca insieme al buon seme a causa del frumento (cfr. Matth. 13, 24-30).

Il dovere di reprimere le deviazioni morali e religiose non può quindi essere una ultima norma di azione.

Esso deve essere subordinato a più alte e più generali norme, le quali in alcune circostanze permettono, ed anzi fanno forse apparire come il partito migliore il non impedire l'errore, per promuovere un bene maggiore.

Con questo sono chiariti i due principi, dai quali bisogna ricavare nei casi concreti la risposta alla gravissima questione circa l'atteggiamento del giurista, dell'uomo politico e dello Stato sovrano cattolico riguardo ad una formula di tolleranza religiosa e morale del contenuto sopra indicato, da prendersi in considerazione per la Comunità degli Stati.

Primo: ciò che non risponde alla verità e alla norma morale, non ha oggettivamente alcun diritto nè all'esistenza, nè alla propaganda, nè all'azione.

Secondo : il non impedirlo per mezzo di leggi statali e di disposizioni coercitive può nondimeno essere giustificato nell'interesse di un bene superiore e più vasto.

Se poi questa condizione si verifichi nel caso concreto — è la « quaestio facti » —, deve giudicare innanzi tutto lo stesso Statista cattolico. Egli nella sua decisione si lascerà guidare dalle conseguenze dannose, che sorgono dalla tolleranza, paragonate con quelle che mediante l'accettazione della formula di tolleranza verranno risparmiate alla Comunità degli Stati; quindi, dal bene che secondo una saggia prognosi ne potrà derivare alla Comunità medesima come tale, e indirettamente allo Stato che ne è membro.

Per ciò che riguarda il campo religioso e morale, egli domanderà anche il giudizio della Chiesa.

Da parte della quale in tali questioni decisive, che toccano la vita internazionale, è competente in ultima istanza soltanto Colui a cui Cristo ha affidato la guida di tutta la Chiesa, il Romano Pontefice...."

(Pio XII Ai Giuristi Cattolici italiani 6.12.1953)

 

 

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