Attenzione alle citazioni da "bacio perugina" quando sono fatte da un Uomo della Chiesa
Attenzione alle citazioni da "bacio perugina" quando sono fatte da un uomo della Chiesa
Solitamente non siamo disponibili a trattare articoli che parlino di qualcuno in particolare. Perché dunque facciamo in questo uno strappo alla regola?
Primo non essendo nostro compito giudicare le persone, infatti non lo faremo, abbiamo il dovere del discernimento; secondo perché in questo caso si parlerà non di un Cardinale di Santa Romana Chiesa in quanto tale, ma di ciò che insegna in funzione proprio al ruolo che ricopre che non è solo onori (e spesso potere), ma soprattutto onéri.
L'articolo risulterà lungo, ce ne scusiamo con i lettori, ma in verità sarebbero così due articoli che abbiamo ritenuto più valido non separare per una miglior comprensione della nostra identità cattolica.
Ci sono state inviate due citazioni attribuite al Cardinale in questione che riteniamo utili per un discernimento, sapendo di rendere un servizio ai fedeli della Chiesa in questo mare di sincretismi e confusioni, e poi perché abbiamo trovato un ulteriore commento sulle ambiguità di Ravasi illustrate dal sito Riscossa Cristiana, niente meno che sul Peccato Originale:
Veniamo alle due citazioni che ci sono state segnalate: la prima è stata ripresa dal quotidiano Avvenire del 2004, la seconda proviene dalle citazioni "spirituali" distribuite dalla Libreria del Santo, via rete, in questi giorni.
27 Ottobre 2004 - i propri errori
di mons. Ravasi
- Non ho mai conosciuto un uomo che, vedendo i propri errori, ne sapesse dar la colpa a se stesso.
- Gli errori dell’uomo lo fanno particolarmente amabile.
Ho messo insieme oggi due frasi di argomento analogo che avevo annotato durante letture differenti. La prima riflessione proviene dall’orizzonte lontano della Cina, da quel "maestro K’ung" che è stato latinizzato in Confucio (VI-V sec. a.C.). Dai suoi Lun Yü o "colloqui" ho, infatti, desunto una verità che siamo poco inclini a riconoscere.
Quando la vita ci dimostra che abbiamo sbagliato, a tutto siamo pronti, anche a giungere all’assurdo e al ridicolo, pur di non riconoscere che la colpa è nostra. Le scuse infantili addotte dal bambino sorpreso con le mani nella marmellata sono le stesse - certo, adattate e più sofisticate - che continuiamo a riproporre da adulti, pur di non confessare la nostra fragilità e responsabilità.
Il coraggio di confessare i propri errori ci farebbero più forti e più apprezzati, diceva Gandhi, ma è una strada scarsamente imboccata.
A questo punto viene bene la seconda frase tratta dalle Massime e riflessioni del grande Goethe. Gli errori rendono più umana ogni persona. Certo, sono sempre un limite, ma proprio per questo la fanno diventare più vicina a ognuno, più amabile e familiare. È per questo che, allora, riconoscere uno sbaglio con semplicità non è una vergogna ma un atto di dignità, capace di produrre simpatia. Anche perché, come diceva De Gaulle, «solo gli imbecilli non si sbagliano mai».
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Vogliamo subito precisare che sconsigliamo a tutti i fedeli la pessima abitudine in voga oggi e soprattutto nella rete, di fare delle meditazioni estrapolando singole frasi, specialmente non cattoliche e gettate lì, come fossero delle esche o baci perugina!
Noi siamo testimoni non di una parola qualsiasi, o delle parole altrui, ma della Parola-Verbo fatta carne, Incarnata e che si chiama Gesù Cristo!
Gli aneddoti, le singole frasi, possono tornare utili senza dubbio, ma non sono quella Parola per la quale siamo stati fatti cristiani, siamo stati chiamati a rendere testimonianza, come rammenta san Giovanni Battista, per la quale siamo chiamati al martirio. Lo stesso frasario dei Santi e del Magistero, deve portare alla fonte del testo integrale attraverso il quale, ogni lettore, deve essere invitato per una lettura integrale e meditata, soprattutto in sintonia con la Tradizione della Chiesa nella Dottrina.
Veniamo alla citazione riportata, la prima.
A prima vista l'intero passo appare innocuo, infatti esso contiene elementi del cosiddetto "esame di coscienza", ma ci sono alcuni punti sui quali è bene fare un discernimento più accurato per evitare un certo sincretismo e soprattutto la perdita inevitabile della nostra identità cattolica.
Ci sembra fuori luogo citare, per esempio, K'ung-Confucio con il termine di "maestro".
Ravasi dice di aver desunto, nel leggerlo, una verità "che siamo poco inclini a riconoscere", e prosegue con la spiegazione.
Non sappiamo se mons. Ravasi parlasse per se stesso, forse voleva sottolineare la sua esperienza personale quando dice: " siamo pronti, anche a giungere all’assurdo e al ridicolo, pur di non riconoscere che la colpa è nostra..."
Non serviva citare Confucio come "maestro" per dire una ovvietà insegnata da sempre nella Chiesa e che ci rimanda al famoso "esame di coscienza" e che ritroviamo oggi persino in centinaia di libretti o foglietti distribuiti dalla CEI per accompagnare gli Atti penitenziali comunitari.
C'è forse nella frase il famoso "senso di colpa" castrante per il quale dedicheremo più avanti un articolo a parte.
Il punto non è di confessare o meno i propri peccati ma, come abbiamo dimostrato nell'articolo precedente, è quello di trovare un Sacerdote capace di riconoscere quali sono questi peccati, aiutare il fedele a tirarli fuori e saper distinguere quelli veniali da quelli mortali, e questo Confucio non lo insegna.
Un'altra strada "scarsamente imboccata", secondo Ravasi, è quella di Gandhi : " Il coraggio di confessare i propri errori ci farebbero più forti e più apprezzati", è sicuro Ravasi che nessun Santo né la Chiesa abbiano mai insegnato questo tanto da poter fare citazioni cattoliche?
A parte il fatto che il primo ad indicarci questa strada è il famoso Decalogo, tra i suoi articoli troviamo l'Ottavo "Non dire falsa testimonianza" dentro al quale riscontriamo il valore di questo coraggio. Quante bugie piccole o grandi finiamo per dire ogni giorno, pur di non riconoscere la nostra responsabilità a noi stessi e fino a coinvolgere gli altri? Quante volte pur di non confessare i nostri errori attribuiamo al Papa o alla Chiesa odi, rancori, fobie varie, fino a pretendere che sia la Chiesa a cambiare e non noi?
Cosa può insegnarci di più un Confucio o un Gandhi che la Chiesa non abbia già sperimentato su se stessa e che ci abbia offerto quale strada sicura per esercitare tutte le virtù? Non siamo forse "noi" battezzati che possiamo e dobbiamo "insegnare" qualcosa a coloro che non la conoscono? A cosa serve l'Anno della Fede? e a cosa serve la sollecitazione ad andare e ad evangelizzare? E come mai i seguaci di Confucio o Gandhi non convergono ad abbracciare Cristo se bastasse solo questo "coraggio" o questo "diventare simpatici, apprezzati"?
Nel Nuovo Testamento troviamo diversi concetti o espressioni riferiti a Cristo in maniera assoluta:
Vi si dice: uno solo è il vostro Maestro; uno solo è il Padre vostro; uno solo è buono; uno solo è il Mediatore; Tu solo sei Santo; un solo Sacerdote; solo Cristo è il Figlio di Dio; solo Cristo è il Capo; solo Cristo è la roccia....
Tuttavia nello stesso Nuovo Testamento, troviamo invece che tali titoli sono talvolta riferiti anche ad altre persone, mentre sembrava che la Scrittura lo escludesse perentoriamente. Troviamo infatti:
da 1 Cor.12,28 - Alcuni perciò Dio li ha posti nella Chiesa in primo luogo come apostoli, in secondo luogo come profeti, in terzo luogo come maestri;
si legga anche Efesini 4,11 e ancora 1Timoteo 2.
Ma non basta, leggiamo ancora che anche il termine "padre" era ugualmente attribuito dagli apostoli non soltanto a Dio ma anche a determinati uomini;
1 Cor.4,15 - Potreste infatti avere anche, diecimila maestri in Cristo, ma non certo molti padri, perché sono io che vi ho generato in Cristo Gesù , mediante il vangelo.
In tale testo San Paolo addita se stesso quale "padre" spirituale dei Corinti senza nessuna possibilità di fraintendimento.
E' chiaro quindi, dai testi sopra citati, che il termine "maestro" era comunemente attribuito a degli uomini da parte degli Apostoli stessi nonostante Gesù avesse detto di non chiamare nessuno in tal modo. Perché?
Qual'é la deduzione logica di tutte queste apparenti contraddizioni di termini (noi abbiamo solo sondato quelli relativi al termine maestro) che si può trarre dalla Scrittura?
Vediamola:
Cristo è "roccia, Figlio di Dio, Sacerdote, santo, buono, giusto, capo, maestro, mediatore", ecc... per definizione, essenza e pienezza propria, in senso assoluto e soprattutto unico mentre, in funzione proprio della sua unicità e in virtù dei diversi "mandati", altri ricevono - in senso appunto "derivato" - dal Cristo per partecipazione e in funzione di Lui: per Cristo, con Cristo ed in Cristo: non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi.
E per fare cosa? per "ammaestrare" l'uomo di ogni tempo e condurlo a Cristo che è la sola ed unica Via, Verità e Vita.
Ecco dunque perché si attribuiscono quei termini anche agli uomini che agiscono, però, in nome e per conto di Cristo quali facenti le sue funzioni, alcuni come sacerdoti, altri come maestri e padri, altri come capi, altri come santi oppure ancora come intercessori, come spiega san Paolo: sempre e solo grazie al fondamento che è e resta solo CRISTO, senza del quale nessuna di quelle funzioni avrebbe senso né motivo di essere, né alcun fondamento.
Occorre dunque ben discernere nella Scrittura l'uso dei termini in senso assoluto da quelli di senso relativo.
Citare un Confucio additandolo come "maestro" di qualche cosa che è una delle identità dell'essere cristiano in quanto ci porta a confessare i nostri peccati a Dio, è relativismo che offusca il Cristo stesso essendo questi il fondatore di un altra religione che non è quella Cristiana. Gandhi ha predicato forse il Cristo morto e risorto e vera Via e Verità della autentica non-violenza?
Rispettare le altre religioni significa proprio non usare i loro fondatori come maestri, rispettarli nella loro cultura, dialoghiamo anche con queste, ma non possiamo usarle come "maestri" guide, strade da intraprendere....
E' davvero umiliante, scoraggiante che un cardinale della Chiesa anzichè parlarci di Cristo e dei Santi, trovare dalla Parola vera la strada da percorrere, ci addita il fondatore di un altra fede come esempio di "maestro".
E le miriadi di Santi e Dottori che abbiamo nella Chiesa con i loro scritti dove stanno? Perchè non citare, su questo argomento della coscienza e della Confessione san Pier Damiani che proprio per questo divenne Dottore della Chiesa?
Siamo giunti al paradosso che i cardinali della Chiesa debbono fare proselitismo alle altre fedi?
Se facessimo un sondaggio tra i cristiani scopriremmo che molti di loro conoscono più Gandhi di un san Pier Damiani!
Infine, ciliegina sulla torta, conclude così il suo pensiero:
"È per questo che, allora, riconoscere uno sbaglio con semplicità non è una vergogna ma un atto di dignità, capace di produrre simpatia. Anche perché, come diceva De Gaulle, «solo gli imbecilli non si sbagliano mai»".
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Provocazione per provocazione, non se ne abbia male Ravasi se ci auguriamo che la Vergine Maria, Theotokos, la Tuttapura, non sia in questo loro elenco, visto che per la dottrina Cattolica Ella non ha mai sbagliato!
Ecco una delle frasi ad effetto da evitare, frase inutile e da bacio perugina, indegna per un principe di Santa Romana Chiesa.
Possiamo comprendere le citazioni fatte dai Baci Perugina, fanno anche piacere leggerle mentre si mangia in buona compagnia un cioccolatino, ma diventano inaccettabili se fatte da un Prelato della Chiesa.
Attenzione dunque, perché un conto è riconoscere uno sbaglio, altra cosa è parlare di PECCATO. Il Peccato non è un semplice "sbaglio", semmai uno sbaglio può produrre, provocare, generare un peccato veniale o mortale. In questo caso, usare la parola "sbaglio" quando prima si è parlato di peccato, si finisce con il diluire il senso del peccato stesso.
Sbagliare infatti vuol dire "prendere un abbaglio; mancanza di osservazione; non badare; scambiare qualcosa" e tutti noi, chi più o chi meno, ha preso nella vita un abbaglio! Peccare invece è compiere una determinata azione, un atto (pensieri, parole, opere ed omissioni) in contrasto con ciò che è definito un bene; compiere un male", e ci sono persone che nella propria vita non hanno mai commesso un peccato mortale dopo aver ricevuto il Battesimo.
Dovremmo, per principio, senza dubbio desiderare di essere, un pò tutti, quegli "imbecilli" che non peccano mai, ma come rammenta l'Apostolo ai Romani 7:
"Io non riesco a capire neppure ciò che faccio: infatti non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto.
16 Ora, se faccio quello che non voglio, io riconosco che la legge è buona; 17 quindi non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me.
18 Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene; c'è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; 19 infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio.
20 Ora, se faccio quello che non voglio, non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me.
21 Io trovo dunque in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me. 22 Infatti acconsento nel mio intimo alla legge di Dio, 23 ma nelle mie membra vedo un'altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra.
24 Sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte? 25 Siano rese grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore! Io dunque, con la mente, servo la legge di Dio, con la carne invece la legge del peccato".
San Paolo ci spiega l'origine di ciò che poi definisce la "buona battaglia" che infatti non è contro le persone, ma contro gli spiriti del male che tendono a trascinarci con loro. Qui egli estrae fuori dal problema la causa che è la concupiscenza che proviene dal Peccato Originale il quale, seppur debellato con il Battesimo, non è annullato negli effetti devastanti che produce, per debellare i quali occorre la volontà dell'uomo arricchita dalla grazia dei Sacramenti senza i quali nessuna battaglia potrebbe essere vinta. San Paolo infatti pur denunciando il suo stato che è anche quello nostro, si forzerà di vivere in Cristo vincendo, come dirà alla fine, la propria battaglia "conservando la fede"; la Grazia è un germe di vita divina che entra dentro l’uomo, si nutre e viene alimentata dai Sacramenti, lo rende partecipe della natura divina, lo purifica e lo santifica. San Giovanni dice che “un germe divino dimora in lui” (1Gv 3,9).
E' per questo che nessuna religione all'infuori di quella Cattolica porta come testimoni i Santi.
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Veniamo alla seconda frase da bacio perugina:
Citazione di spiritualità del giorno - attribuita a Ravasi:
"La santità non è vocazione privilegiata per mistici ma lo sbocco naturale della fede e dell’amore di ogni credente. Bisogna togliere, perciò, dalla santità cristiana quel velo di eccentricità, di esasperazione, di “anormalità” che ha alimentato secoli di agiografia e di predicazione".
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Il concetto in sé non è sbagliato, tutti i battezzati sono chiamati alla santità e tutti i non battezzati sono chiamati, invitati, sollecitati ad intraprendere quell'unica Via (=Gesù il Signore) che conduce all'eternità, non esistono altre "porte".
Quindi se è vero come leggiamo che la santità è lo sbocco naturale della fede, è falso che a questa si dovrebbe togliere il senso di "anormalità e persino di "eccentricità" che la contraddistingue, piuttosto, da quell'essere "del mondo" che aborrisce la santità delle persone.
E' vero che possiamo comprendere in senso positivo questi avvisi dal momento che un santo non è un extraterrestre, non è un eccentrico, ma un santo è "anormale" agli occhi del mondo, e la sua "eccentricità" produce conversioni, ed è segno di contraddizione come dice il Vangelo. Naturalmente occorre avere una giusta devozione ed un corretto uso del culto dei Santi per non rischiare l'idolatria, rischiando una eccentricità non sul Cristo che cambia la persona, ma sulla figura del santo più o meno simpatica o antipatica.
La frase ad effetto attribuita a Ravasi (e probabilmente estrapolata dal contesto di cui è bene tenere conto, quindi ci riferiamo esclusivamente alla frase come la leggiamo non avendo trovato il testo integrale) è una grave ingiustizia nei confronti dei Martiri, delle migliaia di Cristiani oggi perseguitati nel mondo, uccisi in odio alla fede che professano, che è anormalità ed eccentricità per i nostri nemici.
Senza una sana eccentricità, anormalità e persino senza un privilegio che ci deriva dalla grazia "io ho scelto voi", chi ce lo fa fare ad essere cattolici perseguitati nel mondo e chi ce lo farebbe fare di morire in nome di Cristo?
Gli eroi in battaglia, non muoiono forse per una eccentricità del proprio ideale?
"Il tuo vanto, Israele, sulle tue alture giace trafitto! Perché sono caduti gli eroi?" (2Samuele 1,19)
E quando san Paolo cita gli atleti quali eroi dello sport, non sono forse essi motivati da un talento privilegiato che li spinge a dure prove per vincere la medaglia?
Senza motivazione non si vince alcuna battaglia.
Una volta santa Teresa d'Avila, giusto per citare una mistica, mentre pregava e tribolava per le dure prove e tentazioni, chiede a Gesù:
- Signore, come tratti duramente chi ti ama! E' davvero difficile seguirti sulla Croce...
Gesù la consola rispondendole:
- Ma io è così che tratto i miei amici....
santa Teresa che aveva l'umorismo tipico dei Santi, risponde a getto:
- Ora capisco perché ne hai così pochi!
San Paolo ai Galati cap. 2 dice chiaramente:
19 In realtà mediante la legge io sono morto alla legge, per vivere per Dio.
20 Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me..."
Senza il giusto senso di eccentricità, esasperazione, anormalità, non ci sarebbe possibile far nostre le affermazioni di Paolo. Chi infatti potrebbe dire " non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me" senza rischiare la superbia, l'orgoglio, un centrismo scorretto?
E' Paolo stesso che ci fornisce un elenco nel quale la parola VANTO è quella eccentricità corretta che sprona gli animi alla conversione fino al martirio:
2Corinzi 8,24
Date dunque a loro la prova del vostro affetto e della legittimità del nostro vanto per voi davanti a tutte le Chiese
1Corinzi 9,16
Non è infatti per me un vanto predicare il vangelo; è un dovere per me: guai a me se non predicassi il vangelo!
1Corinzi 15,31
Ogni giorno io affronto la morte, come è vero che voi siete il mio vanto, fratelli, in Cristo Gesù nostro Signore!
2Corinzi 1,12
Questo infatti è il nostro vanto: la testimonianza della coscienza di esserci comportati nel mondo, e particolarmente verso di voi, con la santità e sincerità che vengono da Dio.
2Corinzi 11,10
Com'è vero che c'è la verità di Cristo in me, nessuno mi toglierà questo vanto.
Galati 6,14
Quanto a me invece non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo.
Più severi sono gli esempi di Gesù in Matteo cap. 8 dove dice:
7 Guai al mondo per gli scandali! È inevitabile che avvengano scandali, ma guai all'uomo per colpa del quale avviene lo scandalo! 8 Se la tua mano o il tuo piede ti è occasione di scandalo, taglialo e gettalo via da te; è meglio per te entrare nella vita monco o zoppo, che avere due mani o due piedi ed essere gettato nel fuoco eterno. 9 E se il tuo occhio ti è occasione di scandalo, cavalo e gettalo via da te; è meglio per te entrare nella vita con un occhio solo, che avere due occhi ed essere gettato nella Geenna del fuoco. 10 Guardatevi dal disprezzare uno solo di questi piccoli, perché vi dico che i loro angeli nel cielo vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli. 11 [È venuto infatti il Figlio dell'uomo a salvare ciò che era perduto].
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Non è forse questa comprensione un privilegio, una eccentricità agli occhi del mondo, una esasperazione per chi nega il senso del peccato?
Se questa non è eccentricità, "esasperazione" per il modo in cui Paolo ripete gli stessi appelli, "vocazione privilegiata" visto che Gesù dice "non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi", se non è questa una "anormalità" davanti al pensare del mondo, possiamo chiederci, con tutto il rispetto, in quale mondo vive Ravasi!
Perché nella Preghiera quotidiana diciamo: "Ti ringrazio di avermi fatto cristiano"?
La frase attribuita a Ravasi (e, lo ricordiamo, estrapolata probabilmente da un contesto più ampio che potrebbe, letto integralmente, raggiungere invece lo scopo che stiamo sottolineando), va colta nella sua giusta dimensione in cui è san Paolo a spiegarlo: " non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo ", diversamente è di fatto un appiattimento dell'eroicità dei santi, dei martiri e dei mistici.
Senza dubbio che il Signore offre a tutti questa strada, ma è anche senza dubbio che la Chiesa stessa quando conclude un processo canonico di beatificazione e di canonizzazione, parla di eroicità, parla di una vocazione privilegiata offerta a quel tale candidato e di come questi abbia saputo coglierla e renderla fruttuosa; parla di una certa "eccentricità" senza la quale nessun Santo sarebbe riconoscibile da chi non lo è; e parla di una certa "anormalità" che in virtù della grazia è il santo stesso che la rende "normale" sposandola come stile di vita e vivendola nella quotidianità.
In conclusione, perché tutte queste parole per spiegare poche frasi che potrebbero interpretarsi anche in modo più innocente?
Perché stiamo perdendo la nostra identità cattolica!
Perché non sentiamo più citare i Santi per diventare Cattolici e seguire Cristo; non sentiamo più parlare di unicità della nostra fede in Cristo; perché parlare di eccentricità o anormalità sembra ora addirittura una offesa; perché ci sembra che un certo ecumenismo e certo dialogo interreligioso ci stia facendo perdere davvero il senso del "chi siamo", il fatto di essere stati "chiamati" da Cristo per un progetto ecclesiale e nella Chiesa. La maggior parte del testo non contiene opinioni personali, ma la Parola del Signore.
Volevano forse essere "eccentrici" san Padre Pio, o una beata Madre Teresa di Calcutta? Possiamo davvero considerare "normale come la nostra" la vita vissuta da san Padre Pio?
Siamo all'ennesimo dubbio, inganno, sincretismo e ambiguità: siamo tutti uguali: Confucio, Gandhi, Martin Luther King, San Paolo, Santa Teresina, tutti uguali! Tutti sullo stesso piano.
Non è vero! è falso!!
L'uguaglianza che condividiamo è quell'essere figli dell'Unico Padre; amati e redenti dall'Unico Figlio e tutti bisognosi di essere salvati e graziati, tutti abbiamo bisogno di Cristo per diventare eredi dell'eternità beata, santi.
Ma non condividiamo l'uguaglianza nei ruoli che altro non sarebbe l'appiattimento delle "opere meravigliose" e diverse che Dio compie a cominciare da Maria Santissima e di come lo canta nel Magnificat "grandi cose ha fatto in me l'Onnipotente - d'ora in poi tutte le generazioni mi diranno beata", in modo diverso in ognuno, specialmente verso coloro che "chiamati" sanno generosamente rispondere diventando SCANDALO per il mondo; "anormalità, eccentricità" attraverso la quale far risplendere Lui, Gesù Cristo nostro Signore; facendo proprio il Magnificat e poter dire, ognuno di noi al termine di questa corsa: grandi cose ha fatto in me l'Onnipotente, Santo è il Suo Nome.
"Quanto a me, il mio sangue sta per essere sparso in libagione ed è giunto il momento di sciogliere le vele. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede. Ora mi resta solo la corona di giustizia che il Signore, giusto giudice, mi consegnerà in quel giorno; e non solo a me, ma anche a tutti coloro che attendono con amore la sua manifestazione " (2Tim.4,6-8)
A proposito di questo passo, così lo spiega san Giovanni Crisostomo:
"Paolo se ne stava nel carcere come se stesse in cielo e riceveva percosse e ferite più volentieri di coloro che ricevono il palio nelle gare: amava i dolori non meno dei premi, perché stimava gli stessi dolori come fossero ricompense; perciò li chiamava anche una grazia divina. Ma sta’ bene attento in qual senso lo diceva. Certo era un premio essere sciolto dal corpo ed essere con Cristo (cfr. Fil 1,23), mentre restare nel corpo era una lotta continua; tuttavia per amore di Cristo rimandava il premio per poter combattere: cosa che giudicava ancora più necessaria.
L’essere separato da Cristo costituiva per lui lotta e dolore, anzi assai più che lotta e dolore. Essere con Cristo era l’unico premio al di sopra di ogni cosa. Paolo per amore di Cristo preferì la prima cosa alla seconda.
Certamente qui qualcuno potrebbe obiettare che Paolo riteneva tutte queste realtà soavi per amore di Cristo. Certo, anch’io ammetto questo, perché quelle cose che per noi sono fonti di tristezza, per lui erano invece fonte di grandissimo piacere. Ma perché io ricordo i pericoli ed i travagli? Poiché egli si trovava in grandissima afflizione e per questo diceva: « Chi è debole, che anch’io non lo sia? Chi riceve scandalo che io non ne frema? » (2Cor 11,29).
Ora, vi prego, non ammiriamo soltanto, ma anche imitiamo questo esempio così magnifico di virtù. Solo così infatti potremo essere partecipi dei suoi trionfi".
(Dalle « Omelie » di san Giovanni Crisostomo, vescovo - Om. 2, Panegirico di san Paolo; PG 50,480-484 - Ho combattuto la buona battaglia).
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