Come si deve obbedire alla Chiesa

10.07.2013 23:09

 

«Non si fa più difficoltà ad ammettere che da un secolo
tutto è cambiato non solo sulla terra, ma anche in cielo;
che sulla terra c’è un’umanità nuova e in cielo un Dio nuovo.
Il che è tipico dell’eresia: esplicitamente o implicitamente
ogni eresia ha pronunciato questa bestemmia».

(Louis Veulliot: “L’illusione liberale”).

 

Commonitorio di San Vincenzo di Lerino
Capitolo IV
Che s'abbia a fare in caso di divisioni nella Chiesa.


"Che farà pertanto un Cristiano cattolico, se qualche piccola porzione di battezzati siasi separata dalla comunione di tutti i fedeli?
Che altro in vero avrà a fare, se non anteporre a un membro putrido e contagioso tutto il restante del corpo sano?
E se qualche nuova infezione non contenta d'attaccare una sola piccola parte, tenti di dare il guasto a tutta la Chiesa, che farà egli allora?
Avrà allora l'avvertenza di tenersi forte all'antichità, la quale non è più affatto soggetta alle fallaci seduzioni della novità.

E se se in mezzo alla stessa antichità traviata rinvengasi qualche partita d'uomini, o qualche intera città, o tutt'anche una provincia, come s'avrà a contenere?
In questo caso sarà sua cura di dare la preferenza sopra la temeriarità e l'ignoranza di pochi a' decreti di tutta la Chiesa, quando ve n'abbia d'universalmente ab antico accettati...."

San Vincenzo fu un monaco di Lerino, verso la fine del V secolo. La sua biografia l’abbiamo da Gennadio di Marsiglia, in “De Scriptoribus Ecclesiasticis”.
Nel “Commonitorio” l’Autore ci offre “una Regola a canone”, per riconoscere con certezza le eresie sorte nella Chiesa.
Ecco la “Regola”:

«NON È SICURAMENTE CATTOLICA, E QUINDI VA RESPINTA, OGNI NOVITÀ IN CONTRASTO CON QUANTO SEMPRE E DOVUNQUE È STATO CREDUTO E INSEGNATO NELLA CHIESA CATTOLICA».

Naturalmente, il fondamento del canone vincenziano è l’infallibilità della Chiesa, la quale, per questo, non può contraddirsi.
Quindi, quando nella Chiesa sorge una novità in contrasto con quanto Essa ha sempre insegnato, non è buon grano, ma è la zizzania dell’errore, seminata dall’“inimicus homo”.
In tempi di eretici, come oggi, che richiedono una maggiore attenzione, il canone vincenziano fissa il criterio per discernere l’errore, per cui il canone possiede una validità indiscutibile ed intramontabile.
San Vincenzo, comunque, non esclude che si possa «comprendere più chiaramente ciò che già si credeva in maniera molto oscura, per cui le “generazioni future” potrebbero rallegrarsi d’aver compreso “ciò che i loro padri avevano venerato senza capire”, ma il chiarimento non può contraddire ciò che la Chiesa ha fino ad oggi insegnato.

Dopo aver spiegato, nel “Commonitorio”, Al N° 22, l’ammonizione paolina:
«O Timoteo, custodisci il “deposito”, richiama che il deposito (della Fede) è ciò che ti è stato affidato, non trovato da te! (…) non uscì da te, ma a te venne; nei suoi riguardi tu non puoi comportarti da autore, ma da semplice custode! (…). Non spetterà a te dirigerlo, ma è tuo dovere seguirlo».

Al N° 23, San Vincenzo formula l’oblazione: «Forse qualcuno dirà: “Nessun progresso della religione è allora possibile nella Chiesa di Cristo?” e risponde: “Certo che il progresso ci deve essere e grandissimo! Chi sarebbe tanto ostile agli uomini e avverso a Dio di tentare di impedirlo?” A condizione, però, che si tratti veramente di progresso per la Fede, non di modificazione.
Caratteristica del progresso è che una cosa si accresca, rimanendo sempre identica a sé stessa; della modificazione, invece, è che una cosa si trasformi in un’altra».

Progresso, dunque, sì, ma «“in eodem sensu et in eadem sententia” (nello stesso senso e nella stessa formula), perché, se così non fosse, avremmo la sgradita sorpresa di vedere i rosai della dottrina cattolica trasformarsi in cardi spinosi e la zizzania spuntare dai germogli del cinnamomo e del balsamo» (N° 23).

San Vincenzo, quindi, non esclude lo sviluppo dottrinale, ma ne fissa i limiti, affinché si collochi di sostanziale identità con l’antico!
Il Commonitorio, quindi, è ben lungi da una immobilità cadaverica, perché offre delle immagini efficienti e appropriate del carattere vivo della Tradizione e della sua sostanziale immutabilità.

Leggiamo quanto scrive San Vincenzo al N° 23:
«Che la  religione delle anime imiti il modo di svilupparsi dei corpi, i cui elementi, benché col progredire degli anni evolvano e crescano, rimangono, però, sempre gli stessi (…), e se qualche cosa di nuovo appare in età più matura già preesisteva nell’embrione, cosicché nulla di nuovo si manifesta nell’adulto che non si trovasse in forma latente nel fanciullo».
In quelle righe, il Santo lerinese mostra l’intuizione dello sviluppo dottrinale come esplicazione omogenea del dato rilevato (explicatio Fidei).
Se, invece, con l’aumento dell’età «la forma umana prendesse un aspetto estraneo alla sua specie, se le fosse aggiunto o tolto qualche membro, necessariamente tutto il corpo perirebbe e diventerebbe mostruoso o perlomeno si debiliterebbe».

«Le stesse leggi di crescita devono seguire il dogma cristiano… senza ammettere nessuna perdita delle sue proprietà, nessuna variazione di ciò che è definito».
È, insomma, il grano di senape del Vangelo che, per diventare albero, resta sempre di senape.
Ora, questo è sempre il “principio di non contraddizione” o di identità sostanziale, che consente di distinguere tanto la verità cattolica dall’errore quanto il legittimo sviluppo della corruzione dottrinale.

Il Vaticano I, al capo 4, ha sancito questo principio, riprendendo testualmente dal N° 23 del “Commonitorio” la norma canonica dello sviluppo dottrinale “in eodem sensu, in eadem sententia” (Conf. Denz. 1800, 11 capo, p. 5-6).
È chiaro, perciò, che San Vincenzo di Lerino aveva un vivissimo senso della Chiesa e che la Chiesa stessa, citandolo in un Concilio dell'epoca moderna, lo tiene ancora oggi in alta considerazione.

Per Lui, la Sacra Scrittura va letta con la Chiesa, «perché la Scrittura, causa della sua stessa sublimità, non è da tutti intesa in modo identico e universale. Si potrebbe dire che tante siano le interpretazioni quanti i lettori (…). È dunque sommamente necessario, di fronte alle molteplici e aggrovigliate tortuosità dell’errore, che l’interpretazione dei Profeti e degli Apostoli si faccia a norma del senso ecclesiastico e cattolico» (N° 2).

La Tradizione è “la Tradizione della Chiesa cattolica”, ossia è la fede della Chiesa universale, attestata dagli antichi Concili ecumenici, dal consenso unanime dei Padri che «rimasero sempre nella comunione e nella fede dell’unica Chiesa cattolica e ne divennero maestri approvati» (N° 3).

Infine San Vincenzo ritiene anche che la ricerca di un criterio, per discernere la verità cattolica dall’errore, ha tutta la ragione di essere interna alla Chiesa, affinché il Magistero stesso si possa pronunciare, così che il cattolico sia difeso dall’errore, magari da errori proposti da persone investite di autorità nella Chiesa, fattesi “Maestri della Chiesa”, come avvenne con Nestorio, patriarca di Costantinopoli; come Fotino, eletto alla sede episcopale di Sirmio (Pannonia); come il vescovo Donato, ecc...  «con la più grande stima di tutti» (N° 11).
Come non pensare oggi ai tanti "don Gallo" disseminati nella Chiesa, lasciati liberi di seminare l'errore senza che la Gerarchia faccia un solo passo per ammonire questi sacerdoti erranti? Come non pensare alla situazione gravissima di un laico che si è autoelevato a dicitura di monaco fondando un monastero modernista e che invece di fare il monaco va in giro per le diocesi a seminare veleni dottrinali con il tacito e a volte esplicito consenso di non pochi vescovi?
In questo caso San Vincenzo, lo abbiamo letto, è chiarissimo: "E se qualche nuova infezione non contenta d'attaccare una sola piccola parte, tenti di dare il guasto a tutta la Chiesa, che farà egli allora? Avrà allora l'avvertenza di tenersi forte all'antichità, la quale non è più affatto soggetta alle fallaci seduzioni della novità", ma sempre da dentro la Chiesa deve avvenire che sia il Magistero a dire l'ultima parola.

Può anche darsi che novità eretiche tentino di «contagiare e contaminare la Chiesa intera», come nel caso dell’eresia ariana, in cui le verità più sicure vengono sovvertite, negate, messe in dubbio «per l’introduzione di credenze umane al posto del dogma venuto dal cielo», «per l’introduzione di un’empia innovazione, e così l’antichità, fondata sulle più sicure basi, viene demolita, vetuste dottrine vengono calpestate, i decreti dei Padri lacerati, le definizioni dei nostri maggiori annullate, per una sfrenata libidine di novità profane da annullare la Tradizione sacra ed incontaminata» (N° 4).

«L’antichità, quindi non può essere turbata da nessuna nuova menzogna» (N° 3).

Concludendo, diciamo che la regola dataci da San Vincenzo di Lerino è una regola oggettiva, perché il giudizio che ne deriva è un giudizio cattolico, fondato sulla Fede costante e immutabile della Chiesa cattolica, ben diverso dal giudizio soggettivo protestantico, liberale, modernista.

Ma leggiamo ancora quest’altre parole di San Vincenzo:
«Ciò che dobbiamo massimamente notare, in questo coraggio quasi divino dei confessori della Fede, è che essi hanno difeso l’antica fede della Chiesa universale e non la credenza di una frazione qualunque (…). È nei decreti e nelle definizioni di tutti i Vescovi della Santa Chiesa, eredi della verità apostolica e cattolica che essi hanno creduto, preferendo esporre sé stessi alla morte piuttosto che tradire l’antica fede universale» (N° 5).

E poi al N° 6 scrive: «Essi, raggiungendo a guisa di candelabro settuplo la luce settenaria dello Spirito Santo, hannomostrato ai posteri, in maniera chiarissima come in futuro dinanzi a ogni iattanza parolaia dell’errore, si possa annientare l’audacia di empie innovazioni con l’autorità dell’antichità consacrata».
Sono parole di un teologo serio, preciso e ben informato, quale fu San Vincenzo di Lerino col suo “Commonitorio”, le cui pagine vigorose e vibranti di autentica fede cattolica ci spronano a collaborarci nella Fede, la prima virtù teologale, condizione indispensabile della nostra salvezza!
(c.p. 6-7).

Concludiamo riportando dal Documento della CTI (Commissione Teologica Internazionale) del 1990, presieduta all’epoca dal card. J. Ratzinger:
L’Interpretazione dei Dogmi, tratto dal Libro: CTI Documenti 1969-2004 Ed. ESD pag. 381-421
quanto segue.


“ Le dichiarazioni del Magistero circa l’interpretazione dei dogmi sono chiare in proposito e non lasciano dubbi: la storia dei dogmi è il processo di una interpretazione ininterrotta e viva della Tradizione (…) il Vangelo è trasmesso nella Paradosis della Chiesa Cattolica guidata dallo Spirito Santo”.

Non a caso il Concilio di Trento difendendo questa dottrina, metteva al tempo stesso i fedeli in guardia contro una interpretazione privata della Scrittura, sottolineando come spetti alla Chiesa giudicarne il senso autentico e la corretta interpretazione.
Idem fece il Concilio Vaticano I° nel riaffermare Trento anzi, approfondendo ulteriormente, ha riconosciuto uno sviluppo dei dogmi purchè, tale sviluppo: “ si compia nel medesimo senso e secondo lo stesso significato - eodem sensu eademque sententia.
In sostanza: “ per ciò che riguarda i dogmi, si deve mantenere il senso definito una volta per tutte dalla Chiesa”.
Pio XII ritorna su questi aspetti nell’Enciclica Humani generis nella quale rilancia un nuovo avvertimento contro un “relativismo dogmatico” che, abbandonando il modo di esprimersi della Chiesa finisce per usare termini che mutando lungo il corso della storia per esprimere il contenuto della fede, finisce per modificarne il contenuto, relativizzandolo alla comprensione del momento impedendone, così, la comprensione cattolica=universale già sostenuta dalla Chiesa.
Non a caso lo stesso Paolo VI nell’Enciclica Mysterium Fidei (del 1965) ritorna sull’argomento sottolineando anzi, insistendo, sulla necessità che: “si devono conservare le espressioni esatte dei dogmi fissate dalla Tradizione…”.

Commette un grave errore ( e lo ha commesso) chi, usando il Concilio Vaticano II, ha pensato (e pensa ancora oggi) che fosse (e che sia) innocuo modificare la terminologia usata per la proclamazione dei dogmi! E’ come se si fosse preteso (o si pretendesse) di modificare la terminologia usata per il Teorema di Pitagora, o di modificare le regole matematiche pensando di non apportare alcun danno alla applicazione delle stesse.
Il tentativo continuo, da dopo il Concilio, di pretendere di spiegare i dogmi o le dottrine modificandone la terminologia ha finito, in verità, per snaturalizzarli…

Così come non a caso nel 2007, la CdF ha dovuto emanare ulteriori chiarimenti per le: “Risposte a quesiti riguardanti alcuni aspetti circa la dottrina sulla Chiesa”.
Cinque domande, cinque risposte!
La prima spiega, appunto, che il Concilio Vaticano II “né ha voluto cambiare, né di fatto ha cambiato tale dottrina, ma ha voluto solo svilupparla, approfondirla ed esporla più ampiamente”.
Infatti il Concilio  presentò la dottrina tradizionale della Chiesa in un contesto più ampio valorizzando, semmai, la questione anche storica dei dogmi, leggiamo infatti nella DV, n.8:
“vi è nella Chiesa un progresso nella comprensione della Tradizione apostolica…”, vi è pertanto un progresso, non un regresso come è di fatto avvenuto in molti ambiti ecclesiali!
E cosa intendesse la Chiesa per questo “progresso” lo spiegò chiaramente Giovanni XXIII al Discorso di apertura del Concilio del giorno 11.10.1965 quando disse che, l’insegnamento della Chiesa, pur conservando sempre lo stesso senso e lo stesso contenuto, deve essere trasmesso agli Uomini, integralmente, in una maniera viva e corrispondente alle esigenze del loro tempo!
Le "esigenze del tempo" tuttavia, non possono essere l'espediente per snaturalizzare le dottrine o modificarle, questo tempo esige il coraggio della vera fede e la carità nella verità, le esigenze saranno allora contenute nei modi attraverso i quali offrire al mondo questa dottrina e non è il contenuto da adattare al tempo eretico che stiamo vivendo.

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